L’incredibile disavventura nel 1300 di marinai ischitani nel Tevere

La storia di Ischia, isola particolare con un’anima marittima e un’altra montanara, è segnata da numerose storie che coinvolgono marinai, corsari e pirati. Storie senza tempo, come dimostra un episodio di “Cronica: vita di Cola di Rienzo”, opera di un anonimo romano del 1300 (ora edita da Adelphi e curata da Giuseppe Porta). Qui, nel 16esimo capitolo, si racconta che dei naviganti ischitani, a largo della acque laziali, si ritrovarono a fronteggiare una tempesta di vento. Dopo una serie di scelte sbagliate, la barca si arenò nel Tevere: arrivato il giorno, i marinai e i passeggeri furono salvati, ma tutta la mercanzia venne saccheggiata. Dalla cronaca che si legge, i nostri non fecero certo una bella figura.


1865 Alfred Walter Williams - The Castle of Ischia, off the Coast of Naples. Rotherham Museums and Galleries
1865 Alfred Walter Williams – The Castle of Ischia, off the Coast of Naples. Rotherham Museums and Galleries

Della galea sorrenata e derobata in paia romana

Correva l’anno del signore milletrecento…, il mese di …, il giorno …, quando una galea piena di mercanzia si arenò su una spiaggia romana nel Tevere, tra Porto ed Ostia. I fatti si svolsero in questo modo. Alcuni mercanti del Regno di Napoli, provenienti da ponente, avevano caricato a Marsiglia ed Aviglione una galea di stoffe francesi. Il legno apparteneva alla Regina Giovanna. Il padrone, i nocchieri e i marinai erano di Ischia. La mercanzia apparteneva a napoletani ed ischitani. La galea si mosse ed alzò le vele al vento. Superò Marsiglia, Monaco ed il golfo di Genova. Poi passò per Pisa, Piombino ed infine Civitavecchia.
Superata la spiaggia di Civitavecchia, si diresse verso casa. Allora si scatenò una tempesta di vento. Il mare sballottolava il legno senza misericordia. I venti erano talmente contrari, che l’esperienza dei marinai non potette averne ragione. Era circa mezzanotte e l’oscurità incuteva spavento. Mai si vide una notte così infernale. Non c’è salvezza se non ritornare nel porto di Civitavecchia. All’equipaggio e ai passeggeri sembrava difficile e duro tornare indietro e perdere tanta strada, ma se tornavano indietro salvavano la nave. Fu deciso di dirigersi a mezza strada, di cercare scampo su una spiaggia romana e sfuggire a pericolo riparando nel Tevere di Roma. E così fu fatto.

I marinai manovrarono e diressero la nave verso la foce del Tevere. Quanti rischi corsero nell’entrarvi! Ora che la galea navigava lungo il fiume, credettero di essere in salvo, poiché lì, superata la foce, l’ira del mare non poteva minacciarli. Ma non fu così. Quando giunsero a metà del canale del Tevere, nel luogo situato tra Ostia e Porto, il legno si impigliò e non si mosse più. Lì c’è un cattivo passaggio: l’acqua ha poco fondale. essi non si tennero in mezzo al corso del fiume e vi caddero. Gli esperti marinai di Genova e delle Sicilia quel passaggio lo schifano. Diversi marinai scesero in acqua per verificare le ragioni dell’immobilità della nave e videro che essa toccava il fondale. A nulla servì aiutarsi con pale e spingere con le braccia. Intanto, anche il fiume era in tempesta. Il legno s’era arenato e le onde lo percuotevano, agitandolo da un lato all’altro. Sembrava che lo volessero capovolgere.

Lo sconforto dei marinai e del padrone divenne grande. I passeggeri piangevano. Ognuno vedeva di dover morire. Allora si fece giorno e il giorno venne in soccorso con la sua luce. Le grida furono udite al Castello di Porto e ad Ostia. Da Porto vennero dei sannolari che, per denaro, trasportarono a terra i passeggeri. Salvarono il padrone, i marinai e i passeggeri con la loro roba. La mercanzia restò sulla nave. Nel castello di Porto dimorava un nobile romano. Il suo nome era Martino di Porto. Martino chiamò i suoi uomini di fiducia e ordinò loro di saccheggiare tutta la galea e prendere la mercanzia di stoffe e di spezie; le stoffe le vendette e non ne volle rendere alcuna ai derubati. Anzi, dopo disse che avrebbe preferito farsi scomunicare, piuttosto che restituire la roba altrui, Amava ripetere un antico proverbio: “Chi cade in pericolo in mare, vi cade anche in terra”. Per questo fatto e per qualche altro eccesso, Martino di Porto fu poi impiccato.

Su quella galea c’erano i denari e le rendite della Provenza, che erano stati inviati alla Regina Giovanna dal suo paese. C’erano stoffe per un valore di 20 mila fiorini. E i passeggeri erano della Provenza, uomini e donne che andavano a napoli. C’erano sacchi di pepe e di cannella.


TESTO ORIGINALE IN ROMANO ANTICO

Currevano anni Domini MCCC[…], dello mese de […], a dìe […] quanno sorrenao una galea de mercatantia in piaia romana, fra Puorto e Ostia, in lo Tevere. La novella fu per questa via. Mercatanti dello renno venivano da ponente e aveano caricata in Marzilia e in Avignone una galea de panni franceschi. Lo legno era della reina Iuvanna. Lo patrone, li comiti e·lli marinari erano d’Ischia. La mercantia era de Napoletani e Ischiani. Movese la galea e forte leva in aito le vele alloviento. Passa Marzilia, passa Monaco, passa lo mare de Genova. Puoi ne passa a Pisa. Puoi ne veo a Piommino. Puoi ne veo a Civitavecchia. Passata che abbe la piaia de Civitavecchia, volevano entrare in casa. Allora se mosse una pestilenzia de viento. Lo mare bussava senza misericordia. Li vienti erano tanto contrarii, che maiesterio de marinari perdiva onne rascione. La notte era forza mesa. La oscuritate orribile. Mai non vedesti sì pena de inferno. Nullo remedio era, salvo che de tornare allo puorto de Civitavecchia. Forte e duro pareva alli marinari e alle vivate tornare in reto e tanta via perdire. Se a Civitavecchia tornavano, ponevano la nave in salvo. Fu deliverato de tenere mesa via, de canzare in piaia romana e fuire lo pericolo, recuveranno nello Tevere de Roma. Così fu fatto. Voitano li marinari suoi artificii e ignegni. Daco la voita per entrare la foce de Tevere. A quanto pericolo passao in quella entrata! Ora ne veo la galea per lo fiume, credennose essere salvi, puoi che l’ira dello mare non li appoteva, puoi che la foce era passata. Ma non gìo così. Quanno lo legno fu in mieso dello canale dello Tevere, nello luoco che iace fra Uostia e Puorto, lo legno staieva, non se moveva. Là iace uno malo passo. L’acqua hao là poco de fonno. Caddero là in quello malo passo dove ène poca de acqua. Non tennero lo pieno canale. Li usati marinari de Genova e deCecilia quello passo schifano. Allora descesero marinari alquanti per sapere la cascione della demoranza della nave e viddero che·llo legno toccava terra; e non valeva aiutare con pali né premere con vraccia. Anche lo fiume tempestate avea. Lo legno s’era sorrenato nella rena. L’onna buttava e moveva lo legno da lato in lato. Pareva che·llo volessi revoitare sottosopra. Allora la tristezze delli marinari e dello patrone fu granne. Piango le vivate. Ciascheuno crede morire. Allora se fece dìe. Lo dìe succurze con soa chiarezza. Lo romore fu sentito allo castiello de Puorto e ad Ostia. Vennero sannolari de Puorto e portaro quelle vivate per denari in terra. Salvaro lo patrone, li marinari e·lle vivate con loro robba. La mercatantia remase nello legno. Era nello castiello de Puorto uno nobile romano: Martino de Puorto avea nome. Quello Martino abbe suoi fattori e fece tutta quella galea sgommorare e trarne la mercatantia de panni e de speziarie; li quali panni se vennéo e non ne voize rennere cobelle alli perdienti. Anche più che ‘nanti sostenne de essere scommunicato, che de volere rennere l’aitruio. Assenava una soa proverbia antica: “Chi pericola in mare pericoli in terra”. Per la qual cosa e per alcuno aitro excesso Martino de Puorto fu appeso per la canna, como se dicerao. In quella galea venne la moneta e·lli riennita de Provenza, la quale veniva alla reina Iuvanna de soa contrada. In quella venne panni de valore de vinti milia fiorini. In quella venne vivate de Provenzani, uomini e femine, li quali ne ivano a Napoli. In quella veniva sacca de pepe e de cennamo e de cannella.

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