I gatti di Procida sono ormai delle vere e proprie icone dell’isola di Arturo. In ogni zona, soprattutto a Marina di Corricella, è possibile socializzare con questi simpatici felini, a loro agio tra reti da pesca e barche. Un idillio, insomma, ma non è sempre stato così.
C’è stato un tempo in cui a Procida era vietato possedere gatti. Un tempo in cui, addirittura, non era presente nemmeno una colonia di randagi. Il nostro viaggio nella storia ci porta nel 1700, durante il regno di Carlo di Borbone.
Proprio il sovrano spagnolo fu alla base dell’incredibile vicenda. Vista la sua passione per la caccia e dal momento che Procida era una delle riserve venatorie del Regno di Napoli, i gatti vennero messi al bando per evitare che mangiassero i (pochi) fagiani presenti in quel tempo sull’isola. Inoltre, gli stessi isolani non potevano più cacciare ed erano costretti ad allevare i fagiani.
Insomma, Carlo di Borbone voleva cacciare in estrema tranquillità, senza rivali grandi e piccoli, rovinando oltremodo l’esistenza ai suoi sudditi, infliggendo pene pesantissime e sproporzionate nel caso avessero mangiato, cacciato o non allevato i preziosi volatili.
Quando a Procida chi teneva un gatto era punito con torture e galera…
Immaginate un secondo l’assurdità della situazione, con un’istituzione che spreca tempo e risorse per affermare con insistenza che non si possono avere gatti. Le motivazioni (allucinanti) dietro questa misura le conosciamo, ma le ripercussioni ai danni dei “trasgressori” furono ancora più esagerate.
La mano pesante fu applicata soprattutto contro chi possedeva dei gatti a Procida. Come racconta il maestro Alexandre Dumas nel suo “I Borboni di Napoli”, un isolano fu sottoposto a incredibili violenze solo perché nascondeva un felino in casa. Nello specifico l’uomo “fu denunciato, imprigionato, convinto e condannato alla frusta; fu fatto andare per l’isola col suo gatto appeso al collo e quindi rinchiuso nelle galere“.
Subirono le conseguenze dell’assurdo editto anche gli ecclesiastici, che al pari dei nobili godevano di ampi privilegi e di un occhio di riguardo in caso di illeciti. Vennero infatti sequestrate e uccise tre gatte nascoste da monache all’interno del Conservatorio delle orfane, stessa sorte conobbe un altro felino tenuto da alcuni frati.
Senza gatti proliferarono i ratti. Le vittime e la reazione veemente dei procidani
Come scrivono Dumas e altri autori come lo Spiriti, l’eliminazione dei gatti portò al proliferare dei topi, che arrivarono finanche a fare vittime. “I gatti non essendo più là per distruggere i sorci, ed i topi, questi pullulavano, e divennero audaci tanto, che un bambino nella culla fu divorato da essi”. Proprio per lo Spiriti, i bambini vittime dei ratti furono più di uno: i roditori, infatti, si diffusero a tal punto che staccarono il naso a morsi e cavarono “gli occhi e le guance ai bimbi per avventura lasciati soli a casa dalle madri“.
La violenza contro i bambini e le incredibili torture che subirono i possessori di gatti esasperarono pesantemente i procidani. La reazione fu veemente: “Gli abitanti di Procida – scrive Dumas – giunsero ad insorgere ed a minacciare che, se l’editto non fosse stato revocato, avrebbero chiesto aiuto ai pirati barbareschi, meno crudeli, secondo loro, d’un re che lasciava mangiare i loro figli dai topi, piuttosto che correre il rischio di veder mangiato dai gatti uno dei suoi fagiani”.
Sono secoli, in pratica dalla fine del Settecento, che fortunatamente non vige più questa assurda legge che prevedeva che non si potessero possedere gatti. Come dicevamo, adesso i gatti a Procida sono delle vere e proprie mascotte: una rivincita dei felini e degli stessi procidani, che si scagliarono contro un sovrano egoista e da censurare.