Ecco la seconda parte dello stralcio dedicato a Ischia dell’opera ‘Things seen in the bay of Naples’ (qui la prima parte). Qui Mackinnon si concentra su alcuni tratti della storia dell’isola verde. (ENGLISH VERSION)
Il paese d’Ischia cerca di mantenere alta la rispettabilità dell’isola con il suo castello medievale, costruito da Alfonso V d’Aragona. Ha dato asilo dietro le sue possenti mura a molti nobili rifugiati, non ultima Vittoria Colonna, la quale – ascoltando il lamento del mare dai suoi parapetti – deve aver pensato tristemente ai giorni andati, quando da sposa felice aveva ammirato la stessa scena con tutta la gioia e la speranza della giovinezza. La montagna e il mare rimangono, ma una foschia di dolore nasconde la loro bellezza e rivela solo il loro rigore.
Da quel castello esplodeva l’avviso che annunciava l’avvicinamento dei crudeli corsari. Una volta quella scarica fu scambiata per un saluto da parte dei cavalieri francesi di Malta, i quali stavano navigando oltre con la loro nave. Per non essere superati in cortesia risposero al complimento, e resero così nota la loro presenza ai pirati, i quali piombarono su di loro e li portarono via come prigionieri. In questo caso la cortesia ricevette un premio crudele.
Gli scenari cambiano, ma una cosa rimane costante, il lambire delle onde contro queste scogliere rocciose: e brillando alla luce del sole esse ci accecano, creando una foschia onirica dalla quale emergono strani navi. Siamo di nuovo in quei giorni andati in cui la civiltà, così com’era, ha affrontato con l’instancabile spirito d’avventura moderno l’Occidente sconosciuto. Con il remo e la vela egli ha spinto in avanti la sua piccola nave, e quando raggiunge questa baia sente che la terra non può offrirgli un posto più invitante. Così, intorno al 1015 a. C., egli sbarca con i suoi compagni emigranti. Portano con loro le storie dei loro dei, e anche queste trovano una nuova ambientazione. Ischia diventa nella mitologia la residenza del gigante Tifeo, che, bruciato dai lampi di Giove, rispose lanciando lava e rocce al Cielo.
Quel fascino classico rimane ancora attaccato a questo luogo. Attraversata la terra degli uomini i racconti mitici hanno trovato riposo nei Campi Elisi, e sul Monte dell’Inferno di cui Omero cantava: «Disgrazia della stirpe alata, il suo ventre sulfureo emetteva un ruscello di veleno nauseante; nero di tenebre, pieno di tetri boschi, le tribù circostanti lo veneravano con profondo ardore religioso».[1] Quando ispezioniamo questi luoghi più da vicino capiamo che fortunato ritrovamento essi fossero per la mitologia. Quando dobbiamo misurarci con il favoloso, delle prove materiali sono di grande aiuto per mettere a tacere il dubbio. Qui il Cielo e l’Inferno erano l’uno accanto all’altro: che altra prova era necessaria?
Ma per quanto i nostri pensieri stiano vagando, noi cerchiamo ancora l’Epomeo. Berkeley, scrivendo al poeta Pope, disse della vista: «Hai il più bel panorama del mondo, coprendo con un solo sguardo – oltre a diverse isole graziose che giacciono ai tuoi piedi – un tratto d’Italia di circa trecento miglia in lunghezza, dal promontorio di Anzio al Capo di Palinuro».
[…]
Guardando giù vediamo il porto quasi circolare di Ischia Porto, formato dalla Natura e finito dall’uomo. Anticamente era un vulcano attivo, e sputava cenere con tanto vigore quanto il suo genitore dietro di lui. Poi i suoi fuochi sono diminuiti e si può immaginare che il suo lavoro fosse compiuto. Ma non è così. Gli ingegneri del 1856 hanno visto in esso la loro opportunità: «Qui – hanno detto – c’è un piccolo cratere inutile. Si trova convenientemente vicino al mare. Facciamogli un’apertura, e rendiamolo un porto». Così ora navi giacciono ormeggiate dove una volta la lava ribolliva. Guardando questo rifugio accogliente ti senti di aggiungere un’altra frase alla profezia delle Scritture: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci – e i loro crateri in porti».[2]
NOTE:
[1] La citazione non è omerica, ma appartiene a Silius Italicus, XII, 122-125.
[2] Isaia 2,4.